Himba: alla scoperta del popolo rosso del Kaokoland, Namibia
Estremo nord della Namibia, in viaggio verso il popolo Himba. La capitale di questa etnia è considerata Opuwo, che riceve per questo un discreto numero di visitatori nonostante sia lontana dalle normali rotte turistiche del paese. Sono qui per la stessa ragione.
Assoldo una guida Himba e ci incamminiamo verso il supermarket a comprare sacchi di mais, riso, zucchero e tabacco, doni che lasceremo ai villaggi in cambio dell’ospitalità e della possibilità di scattare qualche foto.
L’idea è quella di addentrarsi nel Kaokoland, selvaggia regione nell’estremo nord-ovest del paese che da secoli il popolo Himba ha eletto a propria dimora. Qui fauna selvatica come elefanti, leopardi e altri grandi mammiferi, altrove relegata nei parchi nazionali, è ancora libera di vagare negli spazi sconfinati.
Non siamo ancora usciti dalla città che già l’asfalto lascia il posto a una lunga striscia di terra battuta che si perde all’orizzonte, è la gravel road C43 in direzione nord. Poche decine di chilometri e a un cenno della guida rallento bruscamente, l’auto si ferma avvolta da una fitta nube di polvere. Quando si dirada vedo davanti a me una stretta strada sterrata che si inerpica sul fianco della collina, è quella che conduce al lontano villaggio della mia guida, che sfortunatamente non ho tempo di visitare. Devo accontentarmi di un villaggio più vicino, ma non meno interessante. Attraverso una serie di piste appena tracciate ci inoltriamo nel bush. Non è facile neanche per la guida trovare gli abitanti di uno specifico villaggio Himba, perché oltre a non esserci né mappe né indicazioni, possono essersi spostati seguendo il bestiame. Finalmente, dopo un lungo vagare che sembra a volte puramente casuale, troviamo ciò che stiamo cercando.
Superate le prime basse abitazioni, sagome scure compaiono all’improvviso tra le nubi di sabbia alzate dal forte vento. Tutto è indistinto, avvolto dalla spettrale quanto magica luce dorata tipica dei centri sorti ai margini del deserto, ma queste figure non indossano le vesti blu dei tuareg del Sahara bensì pesanti pelli di vacca, la loro maggiore ricchezza. Siamo finalmente arrivati. Come tutti i villaggi tradizionali Himba, anche questo è formato da una recinzione esterna di rami intrecciati, da un kraal, un recinto interno più stretto che custodisce gli animali, e da un numero variabile di capanne disposte tutte intorno. Queste ultime hanno quasi sempre una struttura interna di pali di legno, più o meno coperta da un intonaco composto da sterco di asino a seconda che si tratti di un villaggio temporaneo o semipermanente.
Gli Himba sono pastori seminomadi che si spostano quando il territorio non offre le risorse necessarie a sfamare il bestiame, di solito nella stagione secca, mentre sono stanziali quando abbondano cibo e acqua.
Il villaggio è abitato in questo momento da due sole donne, una giovane e un’anziana, gli uomini durante il giorno sono fuori a governare il bestiame. La visita è lo stesso molto interessante dal momento che la guida mi spiega molte delle loro tradizioni e mi illustra l’uso anche degli oggetti più semplici, come il porta profumi che contiene la polvere di ocra rossa mista a burro con cui le donne si cospargono la pelle, e un’altra polvere nera, dall’odore pungente, usata come profumo dal momento che in questo ambiente trovare l’acqua per lavarsi non è mai facile.
Raggiungiamo un altro villaggio, questa volta molto vivace. Ci sono donne di varie età, alcuni bambini e adolescenti. Sono estremamente fotogenici, ma allo stesso tempo diversi dalle tante messe in scena che troviamo altrove. Tutto è chiaramente autentico, nulla è costruito per il turista. Il popolo Himba, per una serie di fattori tra cui l’isolamento, la vita in piccole comunità e una società molto legata alla tradizione, è rimasto fuori dagli accadimenti della storia. Una scelta consapevole, tanto più rimarchevole in quanto, pur se venuti in contatto con il mondo moderno, hanno deciso di seguire la propria strada. Ciò non significa che non siano consapevoli di quanto il legame con la tradizione possa renderli attraenti da un punto di vista turistico, ma non è questa la ragione che li spinge a farlo. Lo dimostra il fatto che le tradizioni sono preservate tanto nei villaggi più isolati nel bush (dove difficilmente saranno raggiunti dai turisti), quanto nei villaggi ai bordi delle strade principali, a volte già attrezzati per accogliere i visitatori.
Le giovani donne, a petto nudo e con la pelle coperta di ocra rossa, hanno ricchi monili di metallo, pelle o legno al collo, polsi e caviglie. Le elaborate acconciature di bambini e adolescenti sono la maggiore peculiarità e ognuna ha significati ben precisi. È chiaramente percepibile un vero e proprio culto della bellezza, sottolineato anche da abiti che per quanto ottenuti con materiali semplici e naturali – come gonne o mantelli in pelle - sono pensati per avere una funzione sia pratica sia estetica. In questo contesto è difficile non essere presi da una sorta di frenesia fotografica nella speranza di portare con sé qualche traccia di questo tripudio di colori, ma la guida ci tiene affinché l’incontro sia anche una forma di interazione. Raccolgo volentieri il suo suggerimento e comincio a fare domande direttamente a loro, con l’aiuto della guida che si prodiga in spiegazioni sull’utilizzo e sul significato dei vari oggetti che vedo all’esterno e all’interno delle capanne, dove sono sempre presenti il focolare, unica fonte di calore e luce, e pelli di vacca a coprire il pavimento.
Al termine di questi due giorni di confronto con il popolo rosso, viene naturale smentire coloro che sminuiscono gli Himba definendoli una semplice attrazione turistica. Una visita ai loro villaggi regala ancora emozioni autentiche derivate dal contatto con un popolo che, pur conoscendolo, ha scelto di non omologarsi allo stile di vita occidentale, reclamando così il diritto all’autodeterminazione. Diritto che dovrebbe essere rispettato ogni qualvolta una popolazione o un gruppo di persone decidano, senza fare del male a nessuno, di vivere la propria vita così come essi la intendono.
Le tradizioni del popolo Himba: il calcolo dell’età anagrafica, il matrimonio, la comunità
L’approccio antropologico al viaggio riserva tante occasioni per imparare a vedere il mondo con gli occhi di altri popoli. Provare a uscire dal proprio consueto punto di vista, anche solo per pochi giorni, è un piccolo salto nel vuoto che rigenera.
Durante il viaggio in Namibia tra i villaggi di etnia Himba approfitto quindi della mia guida, anch’essa un Himba, per scoprire tradizioni e cultura del popolo rosso.
Quanti anni hai?
Questa innocua domanda dà il via a una interessante conversazione con la guida, che mi spiega un fatto curioso. Nei villaggi Himba tradizionali non si conosce la propria età se non facendo il confronto con l’età degli altri membri del villaggio e con avvenimenti importanti per la comunità. Quindi chiedendo gli anni a qualcuno si riceve una risposta che ha valore solo all’interno della comunità, per esempio: sono nato quando è nato il figlio di, nell’anno della grande siccità, e via discorrendo in un susseguirsi di riferimenti tanto affascinanti quanto inutili ai fini di una identificazione anagrafica così come noi la intendiamo. E questo, mi spiega, è un problema piuttosto serio quando, com’è capitato a lui, in occasione delle elezioni gli addetti dell’anagrafe vengono inviati anche nei villaggi più lontani per inserirne i membri nelle liste dei votanti (gli Himba hanno gli stessi diritti degli altri cittadini). Nonostante sia un Himba - pur avendo lasciato il suo villaggio da tanti anni per studiare in città - neanche per la mia guida è facile risalire all’età di una persona quando si trova in un villaggio sconosciuto.
Sposarsi non è una passeggiata. O forse sì.
Pur se i villaggi Himba sono molto sparsi sul territorio e a volte lontani gli uni dagli altri, tendenzialmente i matrimoni avvengono con persone al di fuori del proprio villaggio. Ciò significa che i giovani, prima del matrimonio, percorrono grandi distanze a piedi per raggiungere il villaggio dove si è conosciuto il proprio partner, e spesso gli incontri avvengono lontano nel bush, alla larga da sguardi indiscreti se non quelli di qualche animale selvatico.
Gli animali domestici e l’arte di ritrovarli quando si smarriscono.
Spesso gli animali degli Himba sono lasciati liberi di vagare nel bush, pertanto mi chiedo cosa succeda nel caso in cui qualche capo si perda e come si faccia a ritrovarlo. Mi risponde che entra in gioco la conoscenza del territorio e delle abitudini degli animali. Essi sanno che le necessità primarie spingeranno i capi smarriti verso i luoghi dove si trovano la vegetazione più adatta e l’eventuale fonte di acqua, pertanto gli Himba possono ripercorrere le tracce dell’animale fino a ritrovarlo. Sono queste le occasioni in cui può capitare di trascorrere giorni e giorni nel bush, spesso in completa solitudine. Ed è durante questi momenti che gli Himba hanno gli incontri più ravvicinati con la fauna selvatica. Com’è facile immaginare, il leone è il più pericoloso, in quanto è l’animale che tende ad avere meno paura dell’uomo, soprattutto quando è da solo nel bush. Ma anche le iene possono diventare pericolose se fiutano che la persona non è nel pieno delle proprie forze. Possono seguirla per giorni senza nascondersi ma anzi rendendo palese la propria presenza, contribuendo così a fiaccare la resistenza della preda che tenderà a stare più in guardia e di conseguenza a indebolirsi ancora di più. Inizia quindi una sorta di caccia del gatto con il topo, spesso con esiti fatali. E per quanto rari, nelle zone più selvagge del continente gli attacchi di questo tipo all’uomo continuano ad avvenire.
Il legame con la comunità: allontanarsi è una scelta definitiva.
La società Himba è molto tradizionalista e ha scelto di non assimilare i costumi occidentali. Ciò non significa che i singoli, in particolare i giovani, non desiderino cambiare il proprio stile di vita. La guida mi spiega che se un ragazzo raggiunge la città, lo stato si impegna a provvedere a lui sia per quanto riguarda l’istruzione che per le altre necessità. Ma facendo così, com’è capitato a lui, si esce definitivamente dalla propria comunità, nella quale, pur volendo, molto difficilmente si riuscirà a rientrare. In una società come quella Himba, dove il possesso del bestiame determina la ricchezza di una famiglia e dove la possibilità di accudirlo è fondamentale per il mantenimento della stessa, un figlio che decide di andare a studiare in città è una grossa perdita economica e, di conseguenza, questa scelta è assai malvista. Inoltre, non dimentichiamo che nonostante lo stile di vita tradizionale e seminomade (quindi ai nostri occhi poco legato al concetto di ricchezza), il possesso del bestiame dà alle comunità Himba una ricchezza ben maggiore rispetto a quella di buona parte delle popolazioni urbanizzate che stentano a sopravvivere ai margini delle città africane, spesso in condizioni di grave disagio. In caso di necessità, la vendita di un animale può rappresentare per la famiglia un introito di diverse centinaia di dollari, questo in un paese dove sopravvivono sacche di povertà in cui non si arriva a guadagnare un singolo dollaro al giorno.
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