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Lanzarote. L’isola dannata delle Canarie dove perdersi in una natura aspra e selvaggia, lembo di terra plasmato dalla furia dei demoni, per seguire le tracce degli antichi abitanti e bere il vino prodotto delle ceneri dei vulcani. Un viaggio inaspettato attraverso i suo deserti e spiagge assolate.

Lanzarote, da millenni teatro di spaventose eruzioni vulcaniche, è terra di fertili vallate, di bianchi villaggi adorni di palmeti e di spiagge assolate, dove le nuvole spinte dal vento corrono come impazzite, quali messaggere di divinità ancora sconosciute. È il magico luogo dove il mito e la leggenda si incontrano in una vivace realtà, plasmata e dipinta dalla potenza artistica di Cesàr Manrique.
Lanzarote, dichiarata dall’ UNESCO Riserva della Biosfera è l’isola dannata delle Canarie dei “1000 vulcani”, la più affascinante. Disseminata di ben 300 coni e con circa 20 milioni di anni è la seconda più antica, dopo Fuerteventura, ma anche la più nord-orientale dell’arcipelago spagnolo, forse la più affascinante. Immergersi nella sua natura ti dà la sensazione di ritornare alla origini, quando i continenti erano terre primordiali. Da subito colpisce il mix di Africa, Europa e America, i suoi piccoli spazi che sembrano infiniti, come fosse una riproduzione in miniatura. Lanzarote non è la solita isola esotica e turistica che sa di vacanza e di mare. È anche quello, ma qualcosa di molto di più: un mondo a se stante, che trasuda di forza e di libertà. Un punto caldo della Terra che ha dato vita ad un paesaggio unico e straordinario.

Con un passato turbolento, riserva ancora oggi il fascino primordiale di quel lembo di terra tanto simile a Marte, che staccatosi quasi per sbaglio dal continente africano, ne dista poco più di un centinaio di chilometri e, pare custodire grandi misteri. Ma la teoria attualmente più accreditata della sua formazione è quella dell’”Hot spot”, il punto caldo della Terra che ha dato origine a tutte queste isole vulcaniche mediante la risalita di magma in superficie bucando la placca e creando l’intero paesaggio, che oggi possiamo ammirare.

La vera storia di Tyteroygaka, il nome originario dell’isola

È scritta nelle pietre, nella roccia lavica e ovunque se ne trovano tracce in delebili che colpiscono e affascinano il visitatore. In tuareg significa “Quella bruciata”: dal sole e dal vento secco che soffia costante, a volte lieve altre più forte, come quello che proviene dal Sahara. È il nome datole dalle popolazioni di origine berbera che abitavano l’isola, giunti a Lanzarote dalle coste nord africane, spinte dall’harmatan, a bordo di semplici imbarcazioni. Una volta giunti sull’isola avrebbero trovato un habitat assai simile a quello attuale del Medio Atlante. Colpiscono i resti tutt’ora visibili nei numerosi siti dei primi insediamenti detti Majos, che risalgono al 1000 e il 500 A.C., legati ai nomi delle tribù indigene maghrebine. Le cosiddette “case profonde” erano le peculiari abitazioni aborigene di Lanzarote, con pavimento scavato nel terreno per permettere che gran parte della stanza fosse sotto il livello del suolo, mentre alcun tubi vulcanici vennero poi utilizzati come stanze. Tra questi anche alcuni luoghi sacri, in cui si svolgevano i rituali di culto con oggetto gli elementi della natura, in particolare le richieste di pioggia, tipiche dei territori semidesertici.
Caratteristici i riti “casari”, un insieme di solchi realizzati sul tufo vulcanico, per lo spargimento di latte e altri prodotti.
Già nota in epoca romana, l’isola fu scoperta dal navigatore genovese Lanzarotto Malocello nel 1300 che vi rimase per circa 20 anni. Purtroppo ne susseguì tutta una serie di sventure. Nel 1402, divenne la base spagnola, da cui partire per la conquista dell’arcipelago delle Canarie, in quando fu la prima a cedere al Regno di Castiglia, nelle mani del normanno Jean de Béthencourt. Se molti dei Lanzarotes furono venduti come schiavi, altri dovettero subire i ripetuti attacchi della pirateria nordafricana e, successivamente anche dei bucanieri inglesi. Alcuni riuscirono a fuggire sulle altre isole, mentre i sopravvissuti ai massacri trovarono rifugio nelle viscere della terra.

È proprio la Cueva de Los Verdes, tanto spettacolare quanto famosa, la grotta simbolo della resistenza sull’isola. Si tratta di uno dei tratti del tubo lavico formatosi dall’eruzione del vulcano Monte Corona, trai più estesi del mondo, che si percorre attraverso un sorprendente itinerario in discesa.

L’eruzione di Fuoco

Lanzarote non finisce di sorprendere e a renderla ancora più singolare è proprio la sua storia evolutiva. Una continua scoperta di ciò che la natura è in grado di compiere, di fare e disfare a suo piacimento. Così, proprio quando finalmente il destino nefasto dell’invasione nemica stava lentamente mutando ci pensò la stessa forza che diede origine all’isola e all’intero arcipelago a scatenare l’inferno. Tra il 1730 e il 1739 l’isola sembrò precipitare in un vero proprio girone di fuoco della furia devastante di continue eruzioni vulcaniche.

Dal seno della Terra sorse un’enorme montagna”. Raccontò don Lorenzo Curbelo. Il Timanfaya seppellì villaggi e pianure. Per sei anni la lava si diffuse su tutta l’area sud orientale, ricoprendo più di un quarto dell’isola. Ma la rabbia distruttiva del vulcano non era ancora terminata. Dopo neanche un secolo, nel 1824 l’ eruzioni ricominciarono, trasformando per sempre la struttura di Lanzarote. Povertà e carestie minacciarono la sopravvivenza dei suoi ultimi abitanti che in gran parte emigrarono. Non avrebbero potuto più coltivare cereali che esportavano sulle altre isole, ma neanche allevare il bestiame, le capre, le pecore e i maiali perché non c’era più cibo per essi. Ma non mai è nulla perduto. Così Lanzarote ci insegna che il tempo offre sempre una nuova opportunità. Cosicché le nere ceneri vulcaniche crearono le condizioni ideali per alcune coltivazioni, che ne hanno fatto l’eccellenza.
Nonostante l’aridità del clima, si iniziò a coltivare la vite all’interno di profonde e fertili buche coniche che oltre a ripararla dal vento ne mantenevano inalterata l’umidità, protette da zocos, le mezze lune di pietra lavica. Ancora oggi si produce una soave malvasia, un secco rosolio ricavato attraverso una vendemmia rigorosamente fatta a mano e preservata nel tempo.

Monoculture di eccellenza. Patrimonio bio-economico di Lanzarote

Si è spesso pensato che le Canarie fossero solo mare, divertimento e per i più audaci turisti anche escursionismo. In parte è vero, perché si trova anche questo, ma non solo e soprattutto molto di più e di diverso. In realtà sono una mix di ambiente, arte, gastronomia, coltivazioni e natura, capaci di captare anche il viaggiatore più esigente. E la più esclusiva in queste scelte è senza dubbio Lanzarote. Ovunque guardi, ovunque ti giri, troverai sempre qualcosa di sorprendente e particolare. Le curiosità non mancano. Chi avrà sentito parlare dell’allevamento della cocciniglia, dactylopius coccus? Il famoso insetto infestante, originario dell’America centrale che succhia la linfa delle nostre piante, così tanto temuto dai coltivatori, contro il quale si scatena una guerra per salvare le svariate produzioni: qui è considerato una ricchezza. Questo animaletto parassita dei ficodindia cactus, da cui si estrae un colorante rosso carminio, era ben noto alle civiltà preispaniche. Importato dai conquistadores in Europa divenne preziosa merce di scambio, utilizzata quale colorante nell’industria tessile, per tingere le vesti regali ed ecclesiastiche. Attualmente alle Canarie è considerato una importante fonte economica e specialmente a Lanzarote è ritornato a rifiorire come monocultura per l’esportazione. Le cocciniglie che ricoprono le piante vengo prelevate manualmente con un apposito cucchiaio e poi vendute per ricavarne il colorante utilizzato per indumenti, liquori, alimenti, cosmetica e medicina.
Ma non si può andare su questa isola vulcanica senza immergersi per qualche ora tra le spoglie distese dei grigi campi di Lanzarote, dove viene meticolosamente coltivata la pianta dell’aloe vera, rigorosamente biologica! Oltre 10 ettari sparsi nell’estremità nord dell’isola, nel comune di Orzola, dove è possibile percorrerli sferzati dal vento, con davanti il colore del verde delle piante e il nero del suolo vulcanico, respirare l’odore del mare misto a quello della cenere, immersi nell’assoluto silenzio di questa terra

Il Diavolo di Timanfaya. Miti e leggende che animano lo spirito dell’isola delle Canaria

Un diavolo che solleva il tridente è rappresentato nell’opera dell’artista Cesar Manrique, come il “guardiano dei vulcani”, quale espressione di natura potente e selvaggia, in memoria di quel giovane sposo, che nel mito alzò la forca a cinque punte verso il cielo dopo aver spostato un pesante macinio infuocato, uscito dalla bocca del vulcano, dal corpo esamine della sua amata. E con la ragazza portata in braccio, tra le grida di disperazione sparì sepolto dalla lava incandescente.“Pobre diablo!” esclamarono le persone che dal villaggio videro la terrificante scena. Ma lungo il tragitto nella valle di Timanfaya, da ciascuna goccia di sangue sparsa dal corpo della ragazza, nacque una pianta medicinale coltivata dal padre, il quale chiamò con il nome di entrambi: Aloe e Vera. “Podre diablo” è oggi l’immagine simbolo di Lanzarote. Così il diavolo di Timanfaya è ben rappresentato come amuleto regalato, quale simbolo di protezione.
Ma le leggende sull’isola sono tante e tutte legate alla potenza distruttiva dei suoi vulcani. Siamo nel comune di Yaiza, un zona del Timanfaya dove riecheggia la storia di Pedro Perico, un audace aborigeno che combatté contro il demonio. La Leggenda, nata a Lanzarote nel 1500 si riferisce al mito del diavolo e a quello del fuoco che attraverso i vulcani lo faceva immortalare sulla Terra. Ma anche a quella di demoni mascherati da animali, come il terribile caprone, che secondo la leggenda, terrorizzava la popolazione e i pastori di El Rubicon. Fu allora che durante un incontro con la belva, Pedro Perico ebbe il coraggio di battersi, ma nella lotta impari tra i due, l’animale posseduto dal diavolo avrebbe afferrato l’uomo e portato con sé nel barranco, dove non venne mai più ritrovato.

Scoprire l’isola tra luoghi simbolo e territori surreali dove natura e cultura si mescolano inesorabilmente

Viaggiare nel luogo simbolo di Lanzarote, immergersi nell’atmosfera creata dall’anima vulcanica del Timanfaya ti accende di nuova carica energetica: saranno le mille sfumature di grigio, di nero, di rosso del terriccio pietroso che emana il calore, quello del magma incandescente ancora presente nella camera situata a 4 chilometri sotto la superficie. Se si scava tra i sassi, già a pochi centimetri di profondità, si sente il bruciore che penetra nella pelle dei 100 gradi di temperatura. Solo gli arbusti e i licheni si sono lentamente appropriati del territorio arido e inospitale, oltre alla lucertola atlantica, endemica. Ma è proprio in questo Parco Nazionale, secondo le direttive del Centro, che si possono effettuare le più belle escursioni. L’unico delle Canarie a carattere eminentemente geologico, che include ecosistemi litorali, dove i dromedari introdotti dai contadini e allevatori come animali da lavoro, sono oggi esclusivamente impiegati nel turismo. Ci troviamo nella zona Sud occidentale dell’isola. Lasciato il Timanfaya vi è tutto un altro mondo da scoprire che nonostante sia racchiuso in pochi chilometri di distanza, sembra suddiviso in spazi e tempi lontanissimi.

Prelibatezze e colture di eccellenza

Con lo sguardo sempre rivolto al vulcano entriamo nel caratteristico territorio della strada del vino. Spostandosi all’interno, da subito incontriamo prima Yaiza, piccola cittadina dalle case imbiancate a calce e poi Huga, un affascinante villaggio dove ancora oggi si prepara il salmone fresco importato dal Mar del Nord in un affumicatoio fondato dai norvegesi nel 1970. Assai pregiato viene venduto direttamente sul posto.

Antico costume ancora presente ad Uga: i tetti delle case sono realizzati in pendenza per raccogliere l’acqua piovana in cisterne dove viene coltivato una specie di fungo dello Saltòn, con le caratteristiche di purificare e sterilizzare l’acqua rendendola potabile.

Ma è la Geria, ovvero Buca Conica, il cuore della più vasta area vinicola dell’arcipelago, dove i vitigni si perdono all’infinito tra gli strani cerchi di pietra neri, come fossero catapultati da mondi alieni. Un ambiente unico e spettacolare con una superficie di 52 metri quadrati, dichiarato Parco Naturale è zona di protezione dell’avifauna, come Paesaggio protetto. Un invito a perdersi nelle cantine delle tante fattorie e bodegas, dove acquistare e assaggiare la malvasia, che anche Shakespeare, il famoso drammaturgo britannico, pare tanto amasse. “Nettare degli dei” così definiva la sack, com’era allora chiamato dagli inglesi quel buon vino. Vale la pena una visita a ‘El Grifo’, la più antica cantina delle Canarie, fondata nel 1775. All’interno della sua cella vinaria è stato istituito un interessante Museo del vino, dove vengono spiegate le tecniche di lavorazione e di produzione. Nell’antico edificio è presente anche una libreria contenente oltre 4000 libri sulla viticoltura e sulla storia delle Canarie. Dopo essersi ubriacati dai fumi dell’alcol, ma non solo, anche dai profumi e dagli intensi aromi della terra non ci resta che scegliere: proseguire verso Sud lungo le spiagge di sabbia dorata e acque turchesi fino alla Riserva naturale protetta del Promontorio di Punta Papagayo, oppure svoltare sulla costa Ovest per una sosta a El Golfo, l’ex villaggio di pescatori dalla rilassata atmosfera, da cui percorrere a Sud la panoramica strada, dove i surreali colori dei coni vulcanici fanno da netta opposizione a quelli del mare.

Il fascino solitario del Nord e la natura selvaggia dell’isola attraverso gli occhi dell’Artista tra grotte vulcaniche e laghi sotterranei

L’aspetto decisamente coloniale è quello che da subito colpisce chi arriva nella piccola cittadina di Haria, nel nord dell’isola, ricca di storia e atmosfera, con un vivace mercato settimanale. Il bianco e il verde sono i due colori essenziali che le donano un fascino discreto. Ma come in una tavolozza di un pittore, il rosso, il rosa e il giallo delle buganvillee, delle stelle di Natale, dei cactus e dei fichi d’india in fiore ne disegnano i contorni. La caratterizza un ricco palmeto generato dai suoi abitanti che nel XVII E XVIII secolo, ebbero l’abitudine di piantare due palme per ogni nascita se il bambino era maschio, una se era femmina. Ed è proprio qui, nel comune più verde di Lanzarote, grazie al suo microclima, che si riscontra la maggior parte della flora autoctona. Ma anche un luogo magico e accattivante da cui muoversi per scoprire le innumerevoli ricchezze paesaggistiche naturali e artistiche del poliedrico e geniale Cèsar Manrique.
Un salto a ritroso nel tempo è quello che regala al visitatore Cèsar Manrique scultore, pittore, architetto, paesaggista, attivista, ecologista. Nato nel 1919 ad Arrecife, il piccolo e grazioso capoluogo di Lanzarote, fece della sua terra uno scrigno di meraviglie lasciando integra la propria autenticità, per tutta la vita convinto che la natura è il movente di ogni progetto, dalla quale creare ogni forma di libertà. Ovunque sull’isola c’è traccia del suo passaggio, un collegamento fisico e spirituale alla geologia tormentata del suo microcosmo. Da quella che fu la sua ultima dimora, sede della Fondazione, realizzata nel mezzo di una colata di lava a Tahiche nel comune di Teguise, al Jardìn de cactus di Guatiza: una’antica “rofera”, com’è chiamata la cava da cui si estraeva il pietrisco delle ceneri vulcaniche, riconvertita in un luogo dove prosperano ben 450 specie differenti di cactus provenenti dai 5 continenti, per creare una composizione armonica inserita in un perfetto contesto ambientale. La Cueva de los Verdes, la grotta dall’aspetto mitologico che ha dato vita a storie e leggende, è un impressionante tubo lavico di 7 chilometri, formatosi 5mila anni fa a seguito dell’eruzione vulcanica del Monte Corona e si estende fino alla costa per poi continuare sotto l’oceano per 1,5 km nel tunnel “Atlantida”. Un percorso guidato, su ideazione dell’artista lanzarotegno, permette ai visitatori di accedere al lungo canale attraverso un jameo, un’apertura simile ad una grotta per circa 1,3km che termina nella sala concerti. Mentre i los Jameos del Agua che occupano la parte del tunnel più prossima alla costa, raccolgono un lago originato da filtrazioni marine, dimora di una specie di granchio albino unico al mondo. Ma è dal Mirador del Rio, sulla cima del Promontorio di Famara, che Manrique realizzò il punto panoramico più a nord dell’isola, dove lo sguardo si perde verso l’infinito. Una postazione militare spagnola del XIX secolo sapientemente trasformata in un belvedere sull’oceano, con davanti il Parco naturale dell’arcipelago Chinijo, da cui spuntano isolotti vulcani e la solitaria Isla Graciosa.

 

 

Marta Siri | Giornalista professionista di La Spezia, laureata in sociologia, ha scritto per varie testate reportage di viaggi e natura con particolare focus sulla geografia, antropologia, ambiente e costume dei tanti luoghi che ha visitato nel mondo.


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